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Aspetti psicologici nell'iperplasia surrenale: conoscere le proprie condizioni, un diritto e una nec

Aspetti psicologici nell'iperplasia surrenale:

conoscere le proprie condizioni, un diritto e una necessità.

Franco D’Alberton

Psicologo - Psicoanalista

Azienda Universitaria Ospedaliera di Bologna

Policlinico S. Orsola Malpighi

Dipartimento Salute della Donna, del Bambino e dell’Adolescente

franco.dalberton@aosp.bo.it

Mi sono fatto aiutare a scrivere la parte iniziale di questa relazione da una ragazzina di 12 anni che chiameremo Angela e che ha una ISR forma classica con perdita di sali. Da qualche anno tutte le volte che viene in ospedale per i controlli vuole parlare con me da quando, in concomitanza con un difficile momento familiare, aveva passato un momento di depressione. L’ho vista questa settimana e mi ha raccontato, che sta meglio ora che anche i suoi genitori hanno trovato un nuovo equilibrio. A scuola va bene ed anche con alcune amiche ha un ottimo rapporto. Quasi a rassicurare le persone che temono che un’attitudine di queste bambine nell’infanzia per le attività di movimento, i giochi di contatto che spesso condividono con i maschi mi dice: “Quando ero più piccola stavo con i ragazzi, mi piaceva giocare a calcio e fare giochi da maschi. Adesso mi piace stare con le femmine perché mi trovo meglio, fra femmine ci si intende…”

Nel corso del colloquio accenna al fatto che oggi né lei né sua madre potranno essere con noi e allora io prendo la palla al balzo e le chiedo di aiutarmi a fare questa relazione, di dirmi cosa secondo lei io oggi dovrei dire.

Angela è perfettamente informata della sua situazione e qualche mese fa ha rifiutato di fare una vaginoplastica che le era stata proposta perché non essendoci necessità immediate ha preferito posticipare un eventuale intervento a quando più da grande ne avvertirà la necessità. Aveva già sostenuto nel primo anno di vita la riduzione del clitoride e una labiovaginoplastica con abbassamento della vagina. Riferendosi a questo problema mi ha detto che dovevo dire che “non è difficile affrontare queste cose. Quando hai fatto queste operazioni ti senti più libera da un punto di vista fisico e anche psicologico. Quando hai voglia la fai, deve essere fatta quando uno ha voglia, se non ho voglia non possono obbligarmi”.

Le chiedo allora se devo dire qualcosa anche sul fatto se sia giusto parlare apertamente della IS.

“Non dire la verità è sbagliato – mi risponde- io ho parlato ad alcune persone di quello che ho e non è che mi abbiano detto chissà cosa. Quando l’ho detto mi sono liberata, ti liberi tu, non cambia qualcosa a loro, cambia per te. Mi ha aiutato mamma a dirmi che le cose bisogna dirle, se non si dicono può darsi che l’altra fraintenda, che possano succedere molte cose spiacevoli. Mi ha aiutato anche il dott. Balsamo..”.

Questo scambio è avvento all’interno degli incontri che da qualche anno abbiamo iniziato a proporre alle persone con ISC e, nel caso di bambini, anche le loro famiglie in occasione delle visite e dei prelievi periodici.

Il fatto che questa attività, già in essere per altre situazioni molto simili, sia partita da poco tempo, l’impegno che ha chiesto per essere avviata e il fatto che non sempre, almeno all’inizio, è accettata positivamente, a nostro avviso rappresenta un aspetto specifico della ISC e di altre situazioni che hanno elementi simili che sono accomunate da un carattere di segretezza e di riserbo. Fattori questi che ci sembrano evidenziare l’opportunità di modificare la sua sigla in ISC, superando l’anacronistica sindrome adreno genitale che si porta dietro l’idea della sindrome e di un qualcosa che riguarda soprattutto la sessualità.

Malgrado le difficoltà di avvio a cui facevo riferimento, abbiamo visto fin’ora più di 130 persone o famiglie e qui di seguito vi illustro le esigenze che mi sono state fatte maggiormente presenti.

  • Prima di tutto è emerso il bisogno di avere maggiori informazioni sulle proprie condizioni, per tempo, con tatto, sincerità e con un linguaggio comprensibile; “con parole povere” come mi diceva una persona, chiedendoci uno sforzo per utilizzare il meno possibile termini troppo tecnici e un linguaggio troppo specialistico. Quasi tutte le persone che mi hanno parlato delle loro esperienze, pur dimostrando spesso il massimo apprezzamento per la qualità delle cure ricevute e la preparazione tecnica del personale che li ha seguiti, avrebbero desiderato essere sostenuti anche a livello emotivo e poter disporre di maggiori informazioni, comunicate in modo il più possibile chiaro e comprensibile ma soprattutto sincero.

  • E’ stata espressa la necessità di sapere con la maggior chiarezza possibile, nelle forme con virilizzazione, quali sono i pro e i contro degli interventi chirurgici necessari nella prima infanzia e poter così evitare o affrontare con maggiore consapevolezza, se e quando possibile, interventi che richiedono ai genitori interferenze con aree del corpo che dovrebbero costituire aree intime e riservate delle figlie.

La prima richiesta riguarda innanzitutto i genitori e in un secondo momento i figli e le figlie, tranne in quelle situazioni che vengono diagnosticate attorno all’età della pubertà quando il problema si presenta quasi contemporaneamente per i genitori e per le figlie o per i figli.

Infatti, nelle forme individuate allo screening neonatale o nella prima infanzia sono i genitori le prime persone che si trovano ad affrontare la nuova realtà e a dover prendere le prime decisioni e da come viene affrontato quel momento dipende in gran parte la serenità emotiva con cui viene accettata la nuova situazione e il successivo adeguamento alle terapie.

Se pensiamo alle situazioni di cui stiamo parlando, in aggiunta alle fisiologiche complessità dello sviluppo, vi è un dato inaspettato che rende il bambino o la bambina reale non corrispondente all’immagine del bambino o della bambina che ci si aspettava. In aggiunta alla preoccupazioni per la salute, nelle forme classiche sorgono preoccupazioni legate al genere sessuale che chiedono di essere ripensate in una nuova immagine del bambino o della bambina reale. Se questo complesso processo di avvicinamento fra il bambino o la bambina aspettata e il bambino o la bambina reale non avviene non si possono ripristinare le attitudini positive verso il bambino o la bambina attesa e ed elementi di insoddisfazione e incomprensione possono rimanere incistati nella relazione con i figli che ad ogni fase della vita presenterà i suoi caratteri persecutori.

In questa prospettiva il ruolo che il genitore svolge ha una fondamentale importanza perché sono papà e mamma che per primi devono trovare un senso nell’esperienza che stanno vivendo. La scoperta che il proprio figlio o la propria figlia hanno qualcosa che li rende diversi da come ci se li aspettava può influire sulla qualità della relazione futura. Solo la progressiva accettazione e il riconoscimento della soggettività del bambino reale, può evitare che a livello più o meno conscio esso rimandi una mancanza che potrà influire sullo svilupparsi della relazione.

I genitori di Alberto accettano un po’ controvoglia l’ incontro con me che viene loro proposto per la prima volta. Il bambino, che ha sette mesi esprime tutta la sua vitalità la sua curiosità e il desiderio di conoscere il mondo. E’ seduto comodo sulle ginocchia di papà , ha un bel viso vivace, con due guance che ricordano le pubblicità dei prodotti alimentari per bambini.

La diagnosi li ha messi in una situazione difficile, in un’area di riservatezza e di segreto dalla quale fanno fatica ad uscire.

L’idea della malattia incombe come un’ombra minacciosa anche in una situazione nella quale i rimedi sono a disposizione e le aspettative e la qualità della vita, del tutto paragonabili a quelle dei bambini senza patologia. “Io vedo che mio figlio è un bambino che cresce bene, ma da qualche parte, dentro di me, c’è sempre il dubbio che le sue belle guance e la sua vitalità siano forse eccessive e dovute ai farmaci che prende”, afferma la mamma. Il papà ascolta e la rincuora ricordando come la sorella all’età di Alberto avesse un aspetto simile e di come ciò li facesse felici.

“Ha rovinato tutto –dice- lo so che non è razionale, ma non posso fermare questi ragionamenti dentro di me, speriamo che con il tempo sia possibile”.

Abitualmente il tempo consente che le preoccupazioni passino in secondo piano, che la nuova realtà venga accettata ed emerga l’immagine del bambino o della bambina nelle sue potenzialità e doti personali.

Questo può avvenire in tutte la situazioni ma a maggior ragione riguarda le forme di iperplasia surrenale congenita che possono richiedere interventi medici e chirurgici precoci. Molti di questi interventi vengono effettuati con la speranza che, una volta realizzati, possano passare nel dimenticatoio e invece, così non succede, rimangono come zone oscure, punti interrogativi, cicatrici alla ricerca di un perché. Eventuali successivi interventi e “pratiche di manutenzione” rimangono a ricordarli e ad interferire con il rispetto dei confini del corpo, della sua integrità e a complicare il raggiungimento di una piena autonomia personale con l’integrazione del proprio corpo e della sessualità nella rappresentazione che una persona ha di sè stessa.

Infatti, se una persona deve diventare consapevole di ciò che la riguarda, ha bisogno di conoscere i motivi alla base delle decisioni che sono state prese su di lei, nel suo interesse quando non era ancora in grado di operararle e di essere coinvolta in scelte che non hanno il carattere di urgenza e che possono essere posticipate ad un’età successiva.

Poiché i bambini e le bambine non restano bimbi per sempre, se una piena consapevolezza deve farsi strada, possiamo domandarci perché non si può attendere quel momento per operare scelte irreversibili, se possono essere posticipate ad un’età in cui tutto ciò che circonda l’intervento, preparazione, postoperatorio, pratiche di dilatazione e manutenzione possono entrare a far parte di una motivazione personale che le rende maggiormente sostenibili.

Avevo iniziato a pensare alle due esigenze che gli interessati mi avevano fatto maggiormente presente, la necessità di una corretta comunicazione e il massimo rispetto dell’integrità corporea e mi sono subito accorto che anche solo immaginarle come separati significava accettare implicitamente una visione frammentata a compartimenti stagni delle persone che si rivolgono a noi e il perpetuarsi di una prospettiva dualistica che vede il corpo e la mente come entità diverse.

Io parto dalla considerazione che il corpo stia alla base della vita psichica che la vita psichica stessa prenda forma come elaborazione mentale di esperienze del corpo e nel corpo e che ogni esperienza nel corpo lasci memorie mai completamente dimenticabili e che continuano ad avere una influenza nella vita successiva.

Non si tratta naturalmente di episodi rievocabili come memorie precise ma di ricordi legati alla memoria implicita come sensazioni nel corpo, ricordi del corpo che chiedono alla mente di essere integrati. Come ad esempio in occasione dell’inaugurazione di un reparto di terapia semiintensiva è successo ad una persona che era presente e che per tutta la vita aveva in modo inspiegabile provato una fastidiosa sensazione di disagio ogni volta che un elettrodomestico mandava il suo beep, questa persona si voltò sorpresa verso il professore che l’aveva operata nel primo anno di vita, dicendogli “ecco cos’è” indicando il suono che mandavano gli strumenti collegati ad una termoculla.

Un evento della vita come l’individuazione di una malattia organica è un momento carico di preoccupazioni e di dolore che può assumere una valenza traumatica per chi ne è portatore o per i suoi familiari per la quantità di emozioni che comporta e per lo sconvolgimento che implica nelle abitudini, nello stile e nei progetti di vita di una famiglia.

Ho usato il termine trauma per riferirmi all’impatto psichico di un avvenimento, una separazione, un dolore, un incidente, una malattia, che propone una quantità eccessiva di emozioni rispetto alla tolleranza del soggetto e alla sua capacità di padroneggiarle ed elaborarle psichicamente.

Il corpo, come la mente ha le sue esperienze e le sue memorie e perché una memoria non eserciti una influenza traumatica è necessario che possa essere accolta nella coscienza e integrata nella rappresentazione che una persona ha di sé.

Ciò che trasforma un’esperienza dolorosa in un’esperienza traumatica è il non potere essere trasformata in immagini mentali, pensata, raccontata né a sé e né agli altri, il non potere entrare a far parte di un racconto che dia un senso e una continuità alla propria esistenza.

Non abbiamo la possibilità di dilungarci sulle varie ipotesi sul trauma, per comprenderci possiamo prendere a prestito l’ipotesi di Balint (1969) che descrive il trauma con una struttura in tre fasi.

Nella prima fase il bambino immaturo è dipendente dall’adulto e, anche se possono verificarsi frustrazioni che possono portare a irritazione o a volte a rabbia, la relazione fra il bambino e l’adulto è sostanzialmente di fiducia.

Nella seconda fase, l’adulto, contrariamente alle aspettative del bambino fa qualcosa di altamente eccitante, pauroso o doloroso; questo può succedere una volta, improvvisamente o in modo ripetuto e può riferirsi anche ad un evento, una malattia, un incidente che avviene all’interno della relazione.

La conclusione del trauma avviene nella terza fase quando il bambino, si avvicina all’adulto con il desiderio di trovare il senso di quello che è successo e una continuità nella relazione e ora cerca di ottenere un po’ di comprensione, riconoscimento e confort. Ciò che spesso accade è che perché a sua volta addolorato e traumatizzato o per evitare al figlio una nuova sofferenza, l’adulto si comporta come se non fosse successo nulla (pag.431, 432).

Se l’adulto non coglie e conferma le percezioni che il bambino sperimenta, quest’ultimo vive un’esperienza di confusione che lo può portare a chiudersi in un’area privata definita da confini che sono costituiti dalle domande che si dà per scontato non abbiano una risposta o che possano nascondere realtà irreparabili.

Va preso necessariamente in considerazione il dolore del genitore che spesso chiede inutilmente di poter essere accolto e riconosciuto per non continuare a rimanere una sofferenza sempre attuale carica di emozioni indigeribili che non trovano pace. Se quel bisogno invece viene accolto può essere facilitato quel fondamentale processo di integrazione per cui i genitori, a fronte di sensazioni spiacevoli dei bambini, le assorbono, filtrano e bonificano trasformando stati somatici ed emotivi “indigesti” in sensazioni che possano essere digerite, trasformati in uno spazio di accoglienza e di trasformazione (Bion 1967).

Se questo non è possibile, una nuvola di dolore aleggia nella relazione con il bambino, quanto è successo viene tenuto lontano ma può riapparire all’improvviso, minacciando la sicurezza della relazione anche se alcuni problemi medici sono apparentemente risolti. La chirurgia per le emozioni, per quanto auspicata non esiste, esistono meccanismi difensivi di ogni genere, si chiamano negazione, diniego, scissione ma si tratta di soluzioni che chiedono una costante attenzione e prima o poi presentano un conto da pagare.

E’ importante perciò che le cose siano dette in modo chiaro e sincero, che le necessità mediche, gli interventi chirurgici e i ragionamenti che li hanno determinati siano spiegati perché i segni nel corpo e le sensazioni precoci nella mente comportano richieste di conoscenza e di verità che necessitano di essere prese in considerazione.

Se la verità non viene detta nell’occasione propizia, quando il problema c’è, è difficile che possa venire detta in un momento migliore in futuro, io ritengo che omettere una verità e pensare che in futuro ci sia un tempo migliore, purtroppo rappresenti un posticipare un problema, e inaugurare il primo dei tanti rinvii di una serie di omissioni che non troverà mai un tempo migliore per essere sciolta.

Carla è stata portata in ospedale a circa otto anni e mezzo perché stava iniziando precocemente il suo sviluppo e ora che ne ha venti e studia all’università ed è la prima volta che ha la possibilità di parlare di quanto ha vissuto in questi dodici anni.

Ha una profonda delusione e una gran rabbia per come ha sentito che veniva gestita la faccenda, un atteggiamento di sfiducia negli altri, nei genitori ma anche nei medici, che crede abbia contribuito al rifiutare per anni la sua condizione e a non desiderare di informarsi troppo.

“I miei genitori, forse per non farmi soffrire, o forse perché non lo sapevano bene neanche loro - dice - non mi hanno mai detto dettagliatamente di cosa veramente si trattasse. Non so ancora bene quale sia la mia condizione, sono cresciuta nell’idea che si trattasse di qualcosa di momentaneo, che dovevo prendere delle pastiglie per un po’ di tempo per qualcosa che prima o poi sarebbe passato. Poi, mano a mano che passavano gli anni, mi rendevo conto che c’era qualcosa che non andava e, anche a fronte del silenzio dei miei genitori, ho cercato di informarmi da sola. Sono rimasta così delusa che ho reagito rifiutandomi di informarmi di più. Ora sto cominciando ad accettare tutto quello che significa, ma è molto difficile. Tutto questo non parlare ha fatto si che io le cose le accettassi più tardi e mi ha condizionato crescere con dei genitori che non parlano e con dei medici che parlano troppo difficile”.

La presenza di un non detto che aleggia nella relazione e che fa capolino attraverso formazioni angosciose a varia modalità di espressione, interessa tutte le forme di iperplasia e, per quanto possa sembrare strano, interessa maggiormente le forme non classiche dove minori sono le problematiche sanitarie, che per la loro natura non definita, possono ridursi alla rappresentazione mentale di un qualcosa che c’è ma al quale si fa fatica a dare una forma, dove non c’è qualche segno nel corpo che può consentire di attirare su di se le preoccupazioni e le necessità di cura.

Dare un nome alle cose, trovare un significato alle sensazioni che avvertiamo anche a livelli subliminale dentro di noi, non è quel cataclisma che si teme ma costituisce una profonda ed autentica esperienza di integrazione.

“In quel momento ho capito il senso di quello che avevo vissuto, ho potuto dare un nome a quello che mi era successo”, sono le parole che più frequentemente si ascoltano quando si parla del momento in cui una luce di verità illumina aree coperte da ombre più o meno buie .

Qualsiasi fattore che interferisca con quest’inalienabile diritto della persona di essere pienamente informata su quanto riguarda la propria storia personale, anche se motivato dalle più buone intenzione va profondamente rivisto alla luce di quanto ci dicono le persone interessate, di quanto sia stato per loro importante aver avuto la possibilità di conoscere in modo autentico e sincero le proprie condizioni, fare tutte le domande che passano per la testa ed esprimere liberamente i propri pensieri.

Balint, M. (1969) Trauma and Object Relationship. Int. J. Psycho-Anal., 50:429-435

Bion W.R. (1967) Una teoria del pensiero. In Analisi degli schizofrenici e metodo psicoanalitico. Armando Editore, Roma, 1994

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